venerdì 21 febbraio 2020

Alessandro Pirzio Biroli, un criminale di guerra governatore del regno del Montenegro

Ricordare i morti e le ferite di chi scappava dalla guerra è un esercizio e un dovere utile ancora per tutti noi. Non esistono guerre giuste, soprattutto se dietro quelle guerre si nascondeva la ferocia di chi occupava terre lontane, dietro una bandiera, dando sfogo ai più turpi comportamenti. Ieri con umanità sono state raccontate le storie degli italiani che fuggirono dai quei territori o trovarono una morte misera, così come altre decine di migliaia di slavi colpevoli soltanto di essere slavi. Oggi voglio ricordare quello che la storia stessa dipinge come un criminale di guerra, artefice di massacri in Istria e Slovenia durante l'occupazione fascista di quelle terre.
Era nato a Campobasso il 23 luglio 1877 il generale Alessandro Pirzio Biroli, comandante del corpo d’armata, 65 anni all’epoca, prima di divenire per due anni governatore del regno del Montenegro. Ordinava i suoi massacri dicendo:« La favola del buon italiano deve cessare [...] per ogni camerata caduto paghino con la vita 10 ribelli. Non fidatevi di chi vi circonda. Ricordatevi che il nemico è ovunque; il passante che vi saluta, la donna che avvicinate, l'oste che vi vende il bicchiere di vino [...] ricordatevi che è meglio essere temuti che disprezzati. »
Era il primo luglio 1942 quando una camicia nera scrisse alla propria famiglia: "Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Ogni notte abbiamo ucciso famiglie intere, picchiandole a morte o sparandogli". La ferocia del generale, che ammirava la violenza dei tedeschi e che per il suo impegno ottenne poi da Hitler la Gran Croce dell’Aquila tedesca, si spinse a ordinare le seguenti rappresaglie: per ogni soldato italiano ucciso o per ogni ufficiale ferito 50 civili ammazzati e 10 per ogni sottufficiale o soldato ferito in imboscate. Quest’uomo, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Londra del 1908 per la sciabola a squadre, in un opuscolo distribuito alle truppe, dei montenegrini scriveva: "Odiate questo popolo. Esso è quel medesimo popolo contro il quale abbiamo combattuto per secoli sulle sponde dell’Adriatico. Ammazzate, fucilate, incendiate e distruggete questo popolo." Si parla di stupri, omicidi, donne bruciate vive in casa, bombardamenti aerei di scuole e case… Tra i tanti villaggi rasi al suolo con l’uccisione dei loro abitanti, c’è l’episodio raccapricciante di Medjedje dove nel maggio 1943 dopo il passaggio degli italiani, tra le macerie furono trovati carbonizzati 72 cadaveri mutilati, in gran parte vecchi e ammalati.
Il comportamento degli italiani invasori produsse negli jugoslavi una sempre più dura reazione, culminata in feroci schermaglie come la reciproca consegna di cesti pieni di occhi e di testicoli strappati al nemico. Scrisse Tito nelle sue memorie: "Le brutali rappresaglie degli italiani (l’incendio di 23 case e l’uccisione di circa 120 abitanti di Vlaka, Jabuka, Babina e Mihailovici e altri villaggi sulla sponda del Lim, nonché le successive commesse a Drenavo) suscitarono in noi e nei nostri combattenti un cupo furore." L'Italia non consentì mai l'estradizione del criminale di guerra Pirzio Biroli (anche per la mancanza di relazioni diplomatiche Italia-Jugoslavia), tanto che il generale visse a Roma fino alla morte avvenuta nel 1965.

lunedì 26 agosto 2019


Shots of life, Tony Vaccaro torna in Italia     
Il fotografo statunitense inaugura il 27 agosto a Campobasso una mostra con i suoi migliori 100 scatti

Torna in Italia Tony Vaccaro, fotoreporter con i grandi magazine americani come Time, Life, Look, Flair, Sport Illustrated, che sul fronte atlantico nel secondo conflitto mondiale con l’esercito americano diventa fotografo di guerra, documentando la ricostruzione dalle macerie in tutto il teatro del conflitto, fino alla tragedia dell’11 settembre 2001 a New York. Inaugurerà il 27 agosto una sua mostra di cento scatti curata da Andrea Morelli e dall’Associazione Balbino Del Nunzio di Padova, esposta nel “suo” Molise fino al 6 ottobre nelle sale del Palazzo Gil a Campobasso. “Tony Vaccaro. Fotografie di una vita – Shots of a life” sarà anche omaggio alla terra in cui “si formò bambino e poi adolescente e il cui intenso e continuo richiamo, ancora una volta nella vita, come in questa occasione, lo ha portato a riattraversare l’oceano”. Una sezione seppur limitata, infatti, sarà
dedicata alla sua regione e a Bonefro (CB), suo comune d’origine. Al centro della mostra le immagini dei personaggi famosi, che vanno da quelle del mondo del cinema a quelle della politica, agli artisti, pittori, musicisti della seconda metà del secolo scorso, fino alla sezione riservata al mondo della moda. La mostra è promossa dalla Fondazione Molise Cultura con il patrocinio dell’Assessorato al Turismo della Regione Molise, del progetto Patto per il Sud e del Museo Tony Vaccaro di Bonefro.

www.fondazionecultura.it

27 agosto - 6 ottobre 2019
Campobasso, Via Gorizia - Palazzo GIL
Martedì - Sabato: 10,00 – 13,00 e 17,00 – 20,00
Domenica e festivi: 17,00 – 20,00. Lunedì chiuso
Ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura
Costo del biglietto intero: 5 euro – riduzione 3 euro

martedì 21 maggio 2019

Henry Mucci, un guerriero americano made in Campobasso


A sinistra Benjamin Bratt (il Colonnello Henry Mucci) e James Franco (Il capitano Prince)
A destra Il tenente colonnello Henry Mucci
La memoria della Seconda Guerra Mondiale appare sempre più labile: intere generazioni in tutto il pianeta ormai hanno messo alle spalle un dramma che coinvolse popolazioni e paesi lontani, perdendo nel tempo anche il patrimonio orale di chi quella terribile esperienza l’ha vissuta, indossando una divisa ed imbracciando un moschetto. Proprio durante le guerre, però, gli esseri umani possono raggiungere le vette più alte di eroismo, così come quelle della bestialità più assoluta. Se la storia e  l’iconografia stessa del conflitto mondiale per i campobassani è stata costruita sulle fotografie e sui ricordi della presenza tedesca in città e dell’entrata delle truppe canadesi e neozelandesi, una storia merita di essere raccontata che è quella di un eroe americano, nato da emigrante campobassano negli Stati Uniti: la storia di Henry Mucci.

Figlio di Andrea Mucci (1871-1920) nato a Campobasso e di Elizabeth Sabbatella LaMaita, nata a Tiggiano (SA), Henry Mucci viene ricordato dalla storia americana come colui che nel gennaio del 1945 guidò un reparto formato da 128 Ranger dell’esercito statunitense in una missione che salvò 512 sopravvissuti della Marcia della morte di Bataan dal campo di prigionia di Cabanatuan nelle Filippine. La prima operazione nella storia da parte della forze armate americane riguardante il recupero di prigionieri in campo ostile. Mucci diplomato nell’accademia militare di West Point, dopo una prima esclusione dovuta all’altezza, esperto cavaliere equestre (suo padre era un commerciante di cavalli nella zona di Bridgeport, Connecticut), divenne tenente colonnello del 98° Battaglione di artiglieria da campo nel febbraio del 1943, dopo essere scampato all’attacco di Pearl Harbor il 7 settembre 1941.

Nello stesso mese, su ordine della US Sixth Army Command, il comando della sesta armata statunitense, trasformò il suo battaglione di artiglieri in un agguerrito reparto di rangers, attraverso un durissimo e martellante addestramento in un campo nella Nuova Guinea, dove utilizzò tecniche da commando per oltre un anno, specializzando i suoi uomini alla guerriglia e alla vita nella giungla. Un addestramento che serviva ad uno scopo specifico in quell’area. A causa delle condizioni inumane a cui venivano sottoposti i prigionieri di guerra da parte dell’esercito giapponese, durante la liberazione delle Filippine, il generale Walter Kreuger aveva scelto Mucci per guidare la liberazione del campo di prigionia di Cabanatuan dove venivano perpetrate violenze e decimazioni sommarie nei confronti dei prigionieri alleati.

Il Giappone infatti non aveva firmato nessuna delle Convenzioni di Ginevra che, tra le altre cose, garantivano il trattamento umano dei prigionieri di guerra nemici. Di conseguenza, i militari giapponesi non si sentivano vincolati da regole di condotta. I prigionieri di guerra potevano aspettarsi di essere trattati brutalmente dai giapponesi che consideravano chiunque si fosse lasciato prendere vivo come meritevole del massimo disprezzo. Le brutalità vengono ricordate come la marcia della morte di Bataan.  I prigionieri di guerra che non venivano giustiziati direttamente, venivano condannati a morte come schiavi nei campi di lavoro forzato, non solo nelle Filippine ma anche in Cina, a Taiwan, in Corea e in Giappone. Quando le truppe americane e i partigiani filippini cominciarono a liberare il paese, l'Alto Comando dell'esercito imperiale giapponese prese la decisione di massacrare tutti i prigionieri di guerra in modo che nessuno potesse essere liberato. Il 14 dicembre 1944 le unità della Quattordicesima Armata di Area giapponese organizzarono un finto raid aereo al Campo 10-A sull'isola di Palawan, vicino alla città di Puerto Princesa. Dopo aver radunato 150 prigionieri di guerra americani nei loro rifugi, i soldati giapponesi cosparsero le baracche di benzina e diedero fuoco, sparando e bastonando a morte quanti tentarono di fuggire. Un episodio che convinse gli ufficiali americani a mettere in piedi l’operazione di salvataggio nel campo di prigionia, vicino alla città di Cabanatuan, che ospitava oltre 500 prigionieri di guerra che, dopo una prima fuga dei giapponesi dal campo ed il loro feroce ritorno nella metà del gennaio 1945 (che consisteva nella decimazione dei prigionieri), scattava il piano di salvataggio coordinato dal maggiore Robert Lapham, capo della guerriglia per USAFFE (Forze armate degli Stati Uniti in Estremo Oriente) e al capitano Juan Pajota (anche di USAFFE) coordinati col colonnello Horton White.

Il Tenente Colonnello Henry Mucci era a capo di 90 Rangers della C Company e altri 30 della F Company (6 ° Ranger Battalion) insieme a 14 Alamo Scouts (divisi in due squadre). Gli esploratori 24 ore prima dell’inizio dell’operazione avevano ispezionato il perimetro del campo. Alla fine del gennaio 1945 la forza al comando di Mucci circonderà il campo, attaccherà e ucciderà le guardie per poi scortare i prigionieri liberati in salvo a dorso di bufali. Con loro circa 250 guerriglieri filippini, malamente armati e addestrati, impegnati a reperire informazioni, a fare da guida, attaccare e tagliare le linee telefoniche e insieme agli americani impegnare in combattimento le truppe a difesa dell’area. Un’azione eroica quella dei ribelli che, oltre a fare brillare un ponte rendendo impossibile l’intervento dei carri armati, riuscirono nell’operazione a distruggere quattro mezzi a colpi di bazooka, avendo ricevuto l’addestramento solo poche ore prima.

L’operazione fu un successo: 489 prigionieri di guerra e 33 civili messi in salvo, 492 erano quegli americani. Ma in quello stesso giorno venne liberato anche Camp O'Donnell. Due furono le vittime tra i ranger, 21 quelle per i guerriglieri filippini che rispondevano al capitano Jose Paioda, nativo filippino arruolato nelle forze armate americane. Le atrocità raccontate dai sopravvissuti  e le tremende condizioni di vita nei campi di prigionia a Bataan e Corregidor girarono il mondo. Per la prima volta, infatti, grazie alla resistenza filippina che era riuscita a contrabbandare con le guardie corrotte del carcere una macchina fotografica e migliaia di pasticche di chinino, vennero documentate le violenze e le sofferenze dei prigionieri attraverso fotografie scioccanti. Il 2 febbraio del 1945 la notizia venne accolta ufficialmente dal pubblico americano con euforia ma l’evoluzione del conflitto si muoveva rapidamente e presto nell’opinione pubblica americana il ricordo del raid fu oscurato da altri eventi come la Battaglia di Iwo Jima, una delle più sanguinose battaglie nel teatro di guerra che si combatteva nelle acque del Pacifico.

Il leggendario generale americano Douglas MacArthur descrisse la missione come "brillantemente riuscita". Il 3 marzo 1945 premiò personalmente tutti i militari che presero parte al raid, essendo un grande amico di Mucci. Per Il tenente colonnello Henry Mucci la promozione a pieno di colonnello, oltre alla nomina per la Medal of Honor del Congresso. Sia lui che il Capitano Prince che guidò l’attacco centrale al campo, però optarono per la Distinguished Service Cross, la Silver Cross consegnata direttamente dall’amico generale. Mucci proveniva da una famiglia numerosa ei suoi fratelli prestarono servizio nell'esercito e nella marina statunitensi durante la seconda guerra mondiale. Anche le sue sorelle si adoperarono con spirito patriottico, dividendo il loro tempo tra la VFW e il lavoro nelle fabbriche di armamenti bellici.

Dopo la fine della guerra Henry Mucci tornò a casa sua a Bridgeport, CT, dove venne accolto come un eroe nazionale. Un anno dopo la fine della guerra, corse senza successo per il Congresso americano. Nel 1947 il matrimonio con Marion Fountain con la quale ebbe tre figli. Nei suoi ultimi anni è diventato rappresentante di una compagnia petrolifera canadese in Tailandia. E’ stato anche presidente del Bridgeport Lincoln Mercury. Per onorare il loro concittadino, nel 1974 i padri della città di Bridgeport hanno intitolato a Henry Mucci una tratto della Route 25 tra Bridgeport e Newtown. Dopo la pensione, con sua moglie si è trasferito a Melbourne, in Florida. Il vecchio guerriero si è spento il 20 aprile 1997 ad 88 ani dopo le conseguenze dovute alla frattura di un’anca, avuta due anni prima mentre, fedele al suo passato di ranger, nuotava nelle acque di Melbourne. Una sezione dell’Ambasciata Americana di Roma è dedicata alla sua memoria.

IL FILM. L’eroismo di quegli uomini è ricordato nel libro “Ghost Soldiers: The Epic Account of World War II’s Greatest Rescue Mission” (in Italia “Soldati fantasma”, Corbaccio, Milano), divenuto trasposizione cinematografica nel 2016 con il film “The Great Raid - Un pugno di eroi”, una produzione Usa – Australia diretto da John Dahl, con Benjamin Bratt nella parte di Henry Mucci, James Franco in quella del capitano Prince e Joseph Fiennes, ufficiale prigioniero dei giapponesi e leader malato e stremato dei PoW americani.

mercoledì 27 marzo 2019

La parola che arde, Poietika apre le ali A Campobasso dall’8 aprile Salvatore Natoli, Vandana Shiva, Jason Hickel, Wim Mertens, Pino Bertelli, Raul Zurita, Nedim Gursel e Letizia Battaglia


A Campobasso giunge alla quinta edizione il Poietika Art Festival, kermesse che dall’8 al 16 aprile ospiterà in Molise scrittori, fotografi, economisti, musicisti e poeti interrogandosi sul tema “La parola che arde”. Dopo quattro edizioni in cui la parola è stata declinata nelle sue varie sfaccettature artistiche e con ospiti straordinari (Adonis, Umberto Galimberti, Pupi Avati, Tahar Ben Jelloun, Jorge Galan, Antonio Moresco, Ibrahim Nasrallah, Vito Mancuso, Valerio Magrelli, Mariangela Gualtieri,Milo De Angelis, Patrizia Valduga, Ian Goldin, Steve McCurry, Cristiano Godano, Emidio Clementi e tanti altri), l'appuntamento del 2019 ribadisce la scelta di campo e la visione della cultura intesa come veicolo di denuncia, di testimonianza anche scottante e scomoda, per niente rassicurante.
“Perché ora più che mai c’è necessità di un’arte che scruti il mondo senza veli e senza schermi, che dica il mondo da dentro le sue bende. Un’arte che sia argine e testimonianza di umanità, anche quando dell’umanità appaiono soltanto i brandelli”. Sono le parole di Valentino Campo, direttore artistico di Poietika, illuminanti e perfette per introdurre il tema della nuova edizione, voluta dalla Regione Molise e dalla Fondazione Molise Cultura, ideata da Tèkne.
Nata nel 2015 Poietika si è rivelata come ideale luogo di incontri, di conversazioni e dialoghi, tra il locale e il globale, tra il Molise e il mondo. Straordinario il cartellone di ospiti, provenienti da tutto il mondo ospiti del Teatro Savoia, incentrati sulla necessità di dire “la verità, sull’urgenza di non tenere la parola in scacco.” 
Lunedì 8 Aprile inaugura la rassegna Salvatore Natoli con la Lectio magistralis “Dire la verità”. Natoli, ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell'Università degli Studi di Milano - Bicocca , rifletterà sulla necessità rivoluzionaria di esprimere la verità per scardinare l’ipocrisia in una società nella quale conta sempre di più la carriera, il potere, il denaro, l’apparire ancora più dell’essere. Martedì 9 Aprile il primo degli appuntamenti internazionali: Vandana Shiva, in una conversazione con il giornalista Stefano Liberti. L'attivista e ambientalista indiana è una voce alta e forte che denuncia ciò che sta accadendo nel mondo: lo sfruttamento della terra, la questione climatica e ambientale, le biodiversità e l'alimentazione; una testimonianza contro le minacce e gli interessi delle multinazionali. Ancora una figura femminile, anch'ella di risonanza mondiale: Letizia Battaglia, che mercoledì 10 aprile dialogherà con Gianna Piano. Un incontro sulla fotografia intesa come atto di denuncia contro le ingiustizie: una donna dietro l’obiettivo per rendere testimonianza e raccontare gli ultimi e gli indifesi. Fotografia e impegno sociale anche giovedì 11 aprile: al Palazzo Ex Gil Pino Bertelli - figura chiave del neosituazionismo, fotografo, saggista, regista e critico cinematografico - terrà un incontro sul ruolo della fotografia sociale. Lo stesso Bertelli, durante tutto lo svolgimento della rassegna, curerà l'iniziativa "Poietika messa a fuoco da Pino Bertelli". I volti e i luoghi di Poietika fissati nei suoi scatti.
Il filo conduttore di Poietika tocca il tema economico e delle diseguaglianze sociali. Se ne occupa Jason Hickel venerdì 12 aprile, in una conversazione con il prof. Alberto Pozzolo, ordinario di economia politica presso l’Università degli Studi del Molise. L'antropologo inglese, che ha insegnato alla London School of Economics e in prestigiose istituzioni internazionali, affronterà il tema della dicotomia tra Paesi ricchi e poveri, la povertà alimentata da chi ha tutti gli interessi perché sussistano tali differenze. Immancabile l'appuntamento musicale, in esclusiva per Poietika: l'unica data italiana del nuovo tour di Wim Mertens sarà quella del Teatro Savoia di Campobasso. Sabato 13 marzo l'autorevole compositore e pianista belga, si esibirà in duo con il violinista Nicolas Dupont in un viaggio in bilico tra ricerca e dialogo, tra cultura alta e popular, per presentare il suo nuovo lavoro discografico That which is not.
La parola torna protagonista negli ultimi due incontri, con altri due altissimi profili internazionali. Lunedì 15 Aprile Nedim Gürsel dialoga con il poeta Jean Portante. Nonostante sia stato processato per blasfemia dal governo turco, Gürsel continua la sua testimonianza all'insegna della modernità, dell'eguaglianza e della libertà: il fuoco della parola è sempre vivo e continua ad ardere incessantemente. Straordinario il finale di martedì 16 Aprile che vedrà di nuovo sul palco del Teatro Savoia Jean Portante, in dialogo con Raúl Zurita. Il poeta di Santiago del Cile - Premio Nacional de Literatura (de Chile) nel 2000 - simboleggia la Parola resiliente e necessaria. Torturato e condannato dal regime di Pinochet, Zurita ha continuato a testimoniare con la  parola poetica e con le sue performance la situazione cilena dopo il golpe del 1973. La sua parola è argine e fiamma viva.
Non mancherà la sessione estiva, altrettanto significativa , all'insegna della musica e del suo rapporto con la parola e le immagini. Si tratta di Sonika Poietika e vedrà presenti tra luglio e agosto, in alcuni dei più suggestivi e magici borghi molisani, nomi come  Giardini di Mirò e Paolo Benvegnù, GaLoni, Iacampo, Paolo Tocco, Matteo Passante, Riccardo Ceres, Frank Lisciandro (con le sue fotografie che ritraggono Jim Morrison), Ezio Guaitamacchi con il progetto Poeti Rock.